Intervista [telefonica] alla fotografa Federica Di Giovanni.
Come inizia la tua giornata? Di solito, se sono a casa, vado a correre. Faccio trecento giri nel solito parco e mi piace ascoltare le conversazioni di chi siede sulle panchine mentre faccio stretching. Se sono al mare, salgo in barca mi tuffo.
Ci racconti il tuo rapporto con le foto e la fotografia? Da piccola non pensavo affatto di fare la fotografa, anzi mi immaginavo biologa marina o veterinaria: ma la vera verità è che è stato mio padre a trasmettermi questa passione. Come tutte le ragazze degli anni ’80, sono cresciuta con un padre che maneggiava diapositive e macchine fotografiche. C’è una foto simbolo di me che a 2 anni indosso una custodia rigida in spiaggia e, quello scatto, penso sintetizzi bene la mia storia. Ho capito solo dopo tanto tempo quanto sono affine a mio padre e al suo modo di fare, che poi coincide con il mio percorso artistico, se vogliamo. È come se da poco si fosse chiuso il cerchio, come se tutto si fosse messo a fuoco e fosse improvvisamente chiaro, nitido: quasi ovvio.
Raccontaci, sembra un inizio interessante! Bhe, guarda, effettivamente per me lo è: mio padre era un direttore di macchina mercantile e io, fino ad un certo punto della mia vita, credevo corrispondesse a quell’immagine classica di uomo tutto d’un pezzo, spesso fuori casa e lontano dalla famiglia, che fa il suo dovere e che è leader nel suo lavoro, come ci si aspetta che sia un’ufficiale, del resto. Ecco: anche questo lato di mio padre esiste e mi corrisponde, [ma ce lo spiega dopo]: il punto è che io ho scoperto che lui invece voleva essere un giornalista, che la narratività e il punto di vista per lui erano fondamentali e che quando trascorreva il tempo in famiglia e si dedicava ad esempio alle foto era perché gli piaceva moltissimo – e io ho respirato e acquisito inconsciamente questi suoi tratti. Senza rendermene conto l’ho poi sempre emulato.
Quando inizia la tua carriera? Per me inizia con la Marangoni: una scuola-nido che mi ha accolto e cresciuto e che mi ha subito lanciato nel mondo del lavoro. Il livello è subito intimo e altissimo, internazionale e incredibile: in quel momento ho capito l’importanza che per me avrebbe avuto la fotografia, il valore dell’immagine e del progetto. Sono stata molto fortunata perché ho sempre potuto esprimermi come volevo e con naturalezza: senza paura. Quando c’è la fiducia si creano delle magie, così come quando ho debuttato con Sportweek nel Giro d’Italia: ho iniziato come emergente a fianco di fotographer-star. Per me è stato un sogno che tappa dopo tappa si è materializzato nella mia realtà.
Cosa fa di te ti una donna alfa? Ma, io sono molto emotiva e anche molto insicura, ma forse è proprio da qui che riesco poi a reagire e a dominare la timidezza e apparire forte.
Raccontaci del progetto Camping Italia. È un mio figlio naturale, è nato spontaneamente tra il 2009 e il 2010: ho sentito di voler fare un lavoro sull’Italia [in quel momento vivevamo la crisi tra governo Berlusconi poi Monti] e il campeggio in Versilia si è rivelato un condominio senza porte. Uno spaccato perfetto dell’Italia e degli italiani, che non vogliono lasciare il paese e che dicono di voler vivere la libertà del mare, ma che sono poi rinchiusi dentro a questi camper con le antenne satellitari, tra cipolle fritte e odore di Autan. Un lavoro ironico e contemporaneamente in grado di raccontare, senza filtro, il disagio: perché la vita è surreale.
Il tuo prossimo progetto? Si chiama Isole d’inverno. È il primo progetto molto personale: io sono un’isolana [isola di Ponza], adoro il mare e la vita sull’isola, la pesca e i pescatori, che rispetto e osservo da sempre, e mi sento molto legata a quella sensazione che solo le isole ti danno: un rapporto con la natura e con il panorama diverso da tutto. La proporzione uomo/ambiente è diversa, il tentativo infatti è quello di soffermarsi a raccontare quei momenti di vita pazzeschi della vita d’inverno sulle isole minori, come Capraia, Gorgona e Marettimo, dove non c’è nulla se non il mare, il bar del paese e le poche anime che lo abitano. L’idea è nata soffermandomi su un quadro-puzzle a casa di mia nonna: un puzzle storico della mia famiglia, già usato da mio nonno e i suoi 7 fratelli, smontato e rimontato per passare il tempo quando pioveva e non si poteva andare a pesca: un’epifania sul racconto dell’inquietudine.
Come ti immagini tra dieci anni? Con una famiglia, la mia famiglia.
Intervista di Silvia Sardi
[Credits: federicadigiovanni.com/]